L’indimenticabile Giorgio Almirante

Trenta anni fa moriva Giorgio Almirante. Quanti lo hanno conosciuto, quanti lo ricordano, quanti hanno avuto modo di frequentarlo e possono oggi parlarne con spirito sereno, con la mente libera da ogni settarismo rivivendo gli anni che lo hanno visto affrontare lotte serrate contro la faziosità di una sinistra decisa a tener vivo il clima feroce della guerra civile.

Un impegno teso a dimostrare nelle piazze delle città come dei borghi la validità delle sue proposte dinanzi a folle di ascoltatori tra cui non pochi insofferenti avversari. Giorgio, infatti, con la sua ardente ed efficace oratoria riusciva ad attrarre l’attenzione degli oppositori e di coloro ai quali non sfuggiva la singolarità di un pensiero teso al domani senza trascurare la lezione del passato. Le sue parole erano accolte con interesse anche da quelli che nella sua costante milizia scorgevano la passione del compatriota e non dell’avversario.

Fu questo sentimento, che dovrebbe vedere uniti tutti gli italiani al di là delle distinzioni ideologiche, a dare senso e forza al suo rapporto con Enrico Berlinguer, altro esempio di una vocazione caratterizzata dal massimo rigore morale e dal convincimento che la comunione tra le creature umane è un comandamento di cui anche Almirante, temprato dalla fede – era un cattolico convinto – non ignorava ma, anzi, teneva particolarmente a cuore.

Nessuno, finora, si è interrogato sul profondo significato del rapporto tra Giorgio Almirante, punta di un neofascismo che aveva la sua ragione d’essere nella riscoperta delle sue radici ed Enrico Berlinguer, propugnatore di un nuovo comunismo libero dalle catene ideologiche del marxismo-leninismo e deciso ad aprire una nuova stagione politica al mondo del lavoro.

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Renzi e la “comunità democratica”

“Chi non è antifascista non è degno della comunità democratica”. Così ha sentenziato Matteo Renzi a Sant’Anna di Stazzema, sentendosi presuntuosamente erede non soltanto di Sturzo, De Gasperi e Dossetti ma anche di Gramsci e Gobetti.

Renzi finge di ignorare che milioni di italiani, pur attenendosi ai canoni costituzionali, ritengono attualmente del tutto inutile il dibattito fascismo-antifascismo, sono preoccupati delle sorti delle proprie famiglie e non hanno il minimo interesse a far parte di una “comunità democratica” saldamente in mano a oligarchi che usano la partitocrazia per la tutela dei loro interessi.

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A proposito di don Lorenzo Milani

A Firenze, negli anni della giovinezza ero di casa. Di questa città e del rilievo da essa avuto nella storia sociale e culturale della Penisola, ci aveva parlato a lungo e con passione negli anni del liceo il docente di letteratura italiana la cui adolescenza e giovinezza si era svolta nei quartieri popolari della città. In quei quartieri di cui parlerà in seguito nei suoi romanzi Vasco Pratolini. Il nostro professore si era soffermato, come era giusto, soprattutto sull’Umanesimo e sul Rinascimento: ignoravo a quel tempo le insidie che nascondevano per la cultura e per lo spirito.

Nel capoluogo toscano avevo conosciuto e frequentato i maggiori esponenti dell’arte, della letteratura e del pensiero. Seguivo i loro dibattiti che avevano luogo non soltanto nelle sale delle conferenze, ma anche nei caffè “letterari” nel centro della città, rimasti famosi per i loro illustri clienti che annoveravano tra gli altri anche sacerdoti distintisi per il loro interesse verso la cultura “profana”.

Del tutto estraneo, però, a questa cerchia di chierici letterati era un giovane prete che per il suo modo di comportarsi ricordava gli esponenti di quel clero caro alla narrativa francese del ventesimo secolo: preti più noti nelle fabbriche che nelle sale parrocchiali.

Sto parlando di don Lorenzo Milani il cui modo di pensare e di agire sembrava impegnato ad attirare le antipatie dei benpensanti più che a coltivare le simpatie e la stima dei suoi superiori. Dava l’impressione di essersi formato più sulla stampa dei partiti di sinistra, in particolare del partito comunista, che sui testi abitualmente letti e studiati nei seminari. Era, cioè, un prete più attratto dal mito del progresso che dalla tradizione. Ebbi modo di parlarci e mi resi conto di una triste realtà: era figlio di una Chiesa in cui lo scetticismo era sempre più prevalente e in cui gli antichi maestri erano stati dimenticati a favore delle nuove mode basate sulle erronee filosofie e teologie dei padri gesuiti e domenicani dell’Europa centrale.

Grazie a Dio però, a Firenze non c’erano soltanto i preti alla Milani, di cui oggi si è ripreso a parlare, ma anche sacerdoti cresciuti alla scuola di Divo Barsotti, tempratosi nella lettura e nello studio dei Padri della Chiesa e dei grandi mistici di tutti i tempi. La speranza è che in questo conflitto fra un Cristianesimo scristianizzato e un Cattolicesimo dalle forti e profonde radici sia quest’ultimo a prevalere e a segnare il destino dei popoli europei.

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Considerazioni dopo le elezioni in Germania

I risultati delle elezioni in Germania ribadiscono la consistenza di un fenomeno già registrato in Francia con le votazioni per la scelta del nuovo capo dello Stato. Il primo dato di fatto è l’ulteriore conferma del malinconico e indiscutibile tramonto del socialismo nelle diverse forme adottate in Europa come negli altri continenti. Dopo la fine ingloriosa del comunismo crollato, a ben vedere, più per le sue falle mortali che per l’impegno degli avversari, si sta assistendo a una lunga agonia dell’ideologia e del movimento che lo aveva generato, il socialismo.

Agonia che si è manifestata la prima volta in Spagna dove ha contribuito a quello stallo elettorale – né vincitori né vinti – che, però, non ha provocato alcun effetto negativo: la vita è continuata regolarmente in un paese dove il re, sornionamente solo in apparenza, ha dimostrato fino ad oggi di saper calmare i bollenti spiriti della sinistra guardandosi al tempo stesso dall’esporsi troppo nella sempre più incandescente questione della Catalogna. Una questione non da poco che indubbiamente costituisce la preoccupazione più alta e il problema più impellente per chi ha il dovere di mantenere l’unità nazionale senza, però, urtare la sensibilità di un popolo legato alle proprie tradizioni e alla propria storia non sempre condivisa dai concittadini delle altre zone della penisola.

Quanto a Parigi, si ricorderà che Macron con “En marche” – è il nome del partito che lo ha condotto al potere – vuole mantenere quel patto di unità d’azione con Berlino tanto a lui favorevole nella strategia in campo internazionale. Gli osservatori non hanno certo dimenticato che subito dopo la sua vittoria il neo presidente annunciò ai giornalisti che la prima telefonata sarebbe stata alla signora Merkel con la quale evidentemente voleva condividere la gioia del trionfo. C’è chi non ha mancato di sottolineare, non a torto, certi atteggiamenti “primatisti” assunti da Macron ma forse dimentica che questo è un difetto ricorrente nella storia di Francia. Per onestà va detto che l’ambizione di essere “primo fra tutti” non si riscontra soltanto tra gli statisti d’oltralpe così come non è solo un sogno dell’attuale primo cittadino francese quello di riformare l’Unione Europea che si rivela sempre di più un organismo senza alcun potere e direzione.

Sulla situazione tedesca va detto che ancora oggi il tema dei risultati elettorali nel paese indubbiamente più potente e prestigioso d’Europa trova spazio rilevante nei più autorevoli quotidiani del continente e d’oltre oceano. Ovviamente la vittoria della signora Merkel, anche se non ha segnato un primato rispetto alle precedenti votazioni, non poteva non essere sottolineata da inviati e da corrispondenti che unanimemente hanno evidenziato come tale successo sia per l’Europa motivo di rassicurazione per il domani. I lamenti della sinistra per la scalata dei partiti “non omogenei”, secondo le dichiarazioni dei maggiori esponenti politici, non sono un problema dal momento che hanno offerto sufficienti garanzie negli anni trascorsi di adeguamento alle regole costituzionali. Pure qui il partito socialista, nonostante la mobilitazione di tutte le personalità di maggior spicco dell’intellettualismo progressistico e nonostante l’accorta strategia di Martin Schulz, rientrato da Bruxelles proprio per assicurarsi il rispetto della linea da lui indicata, non ha avuto il suffragio di milioni di elettori che fino ad oggi lo avevano appoggiato.

E in Italia? Si seguita ad aspettare Godot. Inutilmente come Vladimiro (Didi) e Estragone (Gogo).

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Echi sapienziali

Tutto è cenere e polvere, tutto,

salvo il Tempio che è in noi.

Esso è nostro. Esso ci accompagna 

nei secoli dei secoli. (Vladimir Maximov)

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Saldi nei nostri ideali

Fra qualche giorno, quando giungerà il voto del Senato, sarà varata la legge che condanna l’apologia del Fascismo. La partitocrazia si difende come può. 

Per quanto ci riguarda non cambieremo idea e non ci preoccuperemo se riterremo necessario riaffermare i nostri ideali e i nostri sentimenti. Nel ricordo di Coloro che per questi ideali e questi sentimenti hanno dato la vita. 

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Amara meditazione di fine agosto

Non si sbaglia osservando che è sempre più basso, al punto di essere irrilevante, il numero dei cittadini italiani che seguono l’attività parlamentare del proprio paese. Costituiscono eccezioni coloro che, a domanda, saprebbero rispondere sul programma di lavoro dei due rami del parlamento, sui temi e problemi, spesso gravi, dibattuti nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Non si registra alcuna partecipazione, alcun interesse della cosiddetta opinione pubblica per le solitamente vane polemiche giornalistiche e radiotelevisive su questioni concernenti il presente e l’avvenire della penisola. E, inevitabilmente, questa indifferenza verso le istituzioni si traduce spesso in una resa acquiescente della maggioranza e in uno sdegno di coloro che non sopportano di vivere in un paese ormai del tutto privo di ogni istanza etica.

Quando la televisione da modo di assistere ai pochi cittadini non ancora disposti a rinunciare ai loro diritti e doveri previsti dalla Costituzione a quel che avviene nelle due sedi legislative, si deve prendere amaramente atto di essere membri di un popolo non più in grado di esprimere con civica fermezza il proprio rifiuto e la propria condanna verso una partitocrazia che non teme più di nascondere la propria tendenza al dispotismo.

Non si perde occasione per proclamare il carattere democratico della nostra repubblica fondata – come ha dichiarato recentemente un alto rappresentante delle istituzioni – sulla libertà di opinione, di parola e di iniziativa. Ma in realtà questa libertà è soltanto flatus vocis, nel concreto si assiste quotidianamente ad una sempre maggiore marginalizzazione di chi, sentendo vivi in se principi e valori legati alla tradizione vorrebbe partecipare attivamente, senza cadute demagogiche ad un impegnativo lavoro di risanamento morale e civile. Non c’è pubblica cerimonia in cui non si sentano i maggiori rappresentanti dei vertici dello Stato esaltare l’alto livello di libertà raggiunto dall’Italia ma, finora, la libertà si è risolta in una ulteriore concessione di spazio a chi vede e pratica la politica come l’apertura senza ostacoli ad una società immiserita nel più inetto conformismo e più soggetta a manovratori e sobillatori. 

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Ancora una volta per la verità 

Come cattolici romani e fascisti autentici non possiamo non essere contrari all’infame ideologia razzistica in qualunque modo essa sia rappresentata. Non è intellettualmente concepibile, non è moralmente ammissibile per ogni mente attiva, per ogni coscienza viva e vigile motivare e giustificare manifestazioni violente in nome di un “suprematismo” che sul piano etico, culturale e civico non ha alcun sostegno per chi si ispira ai principi e ai valori che nel messaggio di Cristo hanno il primo e insostituibile riferimento.

Ma è con la stessa fermezza che si deve riprovare il comportamento di coloro che si sono opposti – ci si riferisce ovviamente ai recenti episodi verificatisi nell’ateneo californiano – alla scriteriata azione discriminatrice appellandosi ad un antifascismo che oggi più che mai si esprime nella divisione e nell’odio. Richiamarsi alla guerra civile americana tra nordisti e sudisti è una manovra provocatrice tendente ancora una volta a stravolgere la verità e a compiere un torto nei riguardi della storia. 

Pertanto, tentare di spiegare la reazione al razzismo in nome dell’antifascismo conferma la mancanza di una coerente e salda cultura veramente creatrice; attesta l’assenza di una piattaforma ideale su cui operare a tutela dell’ordine civile.

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Sinistra integralista: da Concetto Marchesi a Luciano Canfora

Sono rimasti in pochi, a causa dell’età, i cronisti parlamentari incaricati di seguire gli ormai trascurati dibattiti nelle due ali del Parlamento. E forse non c’è più qualcuno che possa rievocare gli interventi spesso infervorati, nel corso delle assemblee più accese, di Concetto Marchesi.

Marchesi fu, nei primi decenni della repubblica, un intellettuale legato al partito comunista che rappresentò, per anni, come senatore. Era docente e studioso della latinità, conosciuto, citato e stimato in campo internazionale. Anche ai suoi tempi i giovani si ribellavano, ma quando mai e dove i giovani non si sono ribellati? Ovviamente costestavano e facevano giornali anche in un’epoca in cui la massoneria era potente e gli anticlericali erigevano monumenti a tutti gli eversori: tra i preferiti, Giordano Bruno. 

Il nostro amò distinguersi dando al periodico da lui fondato e diretto il nome del più furioso e insidioso trasgressore, “Lucifero”. Per i suoi articoli, violentemente luciferini, finì dinanzi ad un giudice severo che lo condannò, lui sedicenne, a trenta giorni di reclusione evitati per l’età. E fra un saggio su Cicerone e un dibattito su Seneca subì il fascino della scienza giuridica al punto da ritenere opportuna anche una laurea in giurisprudenza che affiancò a quella precedente in lettere antiche. 

Durante il regime fascista non voltò, come volle far credere a regime defunto, le spalle al Fascio Littorio e alle sue organizzazioni. Ma fu abbastanza prudente da allontanarsi nel tragico luglio del ’43 dalle ormai sconfitte camicie nere per avvicinarsi ai suoi colleghi simpatizzanti dell’ideologia marxista-leninista e in collegamento con le cellule clandestine del p.c.i. Quel che avvenne dopo è ben noto. Non gli fu difficile, data la sua fama di docente e di studioso, raggiungere i vertici delle Botteghe Oscure  acquistando e mantenendo una posizione prestigiosa.

Viene in mente, pensando a Marchesi, un altro emerito professore di chiara fama per le sue lezioni e per i suoi perspicaci contributi, tesi ad approfondire le questioni concernenti gli studi classici. Si parla di Luciano Canfora che si è messo in luce negli ultimi tempi non soltanto come uno dei maggiori esponenti nel campo della ricerca e della riflessione sulla storia e la letteratura antiche ma pure in quello del pronunciamento politico. I suoi articoli, le sue interviste e le sue polemiche non sono e non possono essere trascurate. Si ha spesso l’occasione di leggere contemporaneamente sia i risultati delle sue indagini nei vari settori di competenza che i suoi interventi su questioni legate al momento politico: in Italia costantemente agitato e confuso.

E, sia detto con franchezza e con rispetto, quando affronta questioni legate alla polemica del giorno, il lucido docente e l’accorto nonchè instancabile ricercatore, è duramente posto in ombra a vantaggio dell’utopista, del sognatore di una società socialista magari destinata ad essere soggiogata da un nuovo Lenin. Un dato negativo per la cultura.

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Pavel Florenskij a settanta anni dalla morte

Sono trascorsi settanta anni dalla scomparsa di Pavel Florenskij: scrittore, pensatore e scenziato assassinato dalla polizia sovietica che lo accusava di attività sovversiva contro lo Stato. In pochi hanno ricordato padre Pavel, il prete che, fedele alla sua vocazione, tenne all’impegno pastorale più che ai riconoscimenti accademici; alla celebrazione dell’Eucarestia più che all’avanzamento gerarchico.

Purtroppo non ci si è preoccupati di richiamare alla memoria popolare questo tragico evento che veniva a confermare la brutalità di regimi ostili ad ogni espressione del vivere civile, di ogni chiaro e leale confronto politico. In proposito, viene da domandarsi se ci sia ancora qualcuno in grado di ricordare Solgenitzin, il poeta e romanziere che dopo anni di carcere fu costretto a emigrare in America, dove visse da estraneo, incapace di inserirsi in un popolo troppo diverso dal suo.

A padre Florenskij spettò un destino ancora peggiore. Il coraggioso testimone della fede e assertore di un ordine civile negato dal dispotismo marx-leninista apparteneva ad una razza dello spirito oggi estinta, sia nell’ambito del cattolicesimo nella sua centralità romana che in quella confessione ortodossa del cui clero era membro amato e ascoltato. Del resto come e quanto avvertisse il senso e la portata della vocazione appare evidente nelle lettere alla famiglia in cui esortava la moglie e i figli a non cedere ed a seguire convintamente principi e valori custoditi da una tradizione millenaria mai rinnegata fino all’avvento del regime sanguinario di Lenin. Sempre in piena armonia con coloro che hanno cuore e mente liberi da ogni soggezione a ideologie e utopie.

Florenskij di cui oggi si possono leggere le sue migliori opere in italiano con i commenti di autorevoli pensatori e storici della cultura russa, seppe comunicare la sua forza interiore e il suo credo non soltanto a chi gli fu sentimentalmente e intellettualmente vicino, ma anche agli infelici costretti a subire le angherie e le tribolazioni dei campi di concentramento e del carcere dove, quando vi fu rinchiuso, non smise di dedicarsi alla ricerca scientifica, alla meditazione filosofica e alla contemplazione. Senza trascurare il solidale compito di infondere consolazione e incoraggiare i tanti che subivano le sue stesse pene. 

Morì riaffermando fino all’ultimo il credo della sua giovinezza: in spirito di quella assoluta fedeltà che aveva caratterizzato ogni attimo della sua esistenza di vivificatore delle coscienze e di animatore del pensiero.

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